La moneta è un mezzo

“La moneta ha valore perché è la misura del valore. Poiché ogni unita di misura ha la qualità corrispondente a ciò che deve misurare, come il metro ha la qualità della lunghezza perché misura la lunghezza, così la moneta ha la qualità del valore perché misura il valore. Per questo motivo il simbolo monetario non è solamente la manifestazione formale della convenzione monetaria, ma anche il contenitore del valore indotto ed incorporato nel simbolo: quello che noi chiamiamo potere d’acquisto.” Prof. Giacinto Auriti

La moneta è un mezzo

venerdì 15 luglio 2011

Il mistero del debito pubblico


di Luigi Copertino per effedieffe.com
tratto da vivamafarka

Nota SCECBELMONTE
Non vi scoraggiate davanti la "relativa" lunghezza dell'articolo, vale la pena leggere per capire razionalmente ed in poche righe in che mondo viviamo e perché scegliamo SCEC come misura anti-crisi.


 Buona Lettura.
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In questi giorni stiamo tutti godendo dei magnifici effetti di una globalizzazione pensata in funzione della finanziarizzazione su scala planetaria dell’economia.

Storditi dalle notizie provenienti dalle Borse, che ci dicono solo e ripetutamente che dobbiamo tirare la cinghia, non riusciamo a comprendere cosa stia accadendo, ora che anche l’Italia, dopo la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo e la Spagna, è sotto attacco.

Premetto che lo scrivente non è un professore di Economia, quanto piuttosto un osservatore della realtà: anche di quella economica.


Tuttavia lo scrivente, anche senza sedere su una cattedra universitaria, ritiene di aver conservato l’uso di ragione in una epoca che definire irrazionale è troppo poco. E la ragione, o meglio il senso comune, mi dice che in tutto quanto sta accadendo, all’Italia ed agli altri Paesi europei, vi è qualcosa che non torna, qualcosa di poco chiaro, le cui radici devono essere cercate all’inizio di questa lunga e secolare storia.

Vediamo, allora, un po’ di capirci qualcosa ricorrendo, per l’appunto, alla storia, che come è noto è magistra vitae.

Cosa è – innanzitutto – il debito pubblico?

Domanda basilare. Si tratta del debito che lo Stato contrae per finanziare le proprie funzioni.

Il punto è capire, però, con chi lo Stato contrae questo debito e perché mai deve necessariamente farlo.

In effetti, ab origine, lo Stato – o meglio il re, l’imperatore, insomma il sovrano di turno –, laddove il prelievo fiscale risultava insufficiente, coniava da sé tutta la moneta aggiuntiva che gli era necessaria per pagare l’apparato burocratico o l’esercito e per finanziare le funzioni di giustizia o le guerre.

Spesso, il monarca ricorreva anche a trucchi come quello di tagliare le monete auree con altri più vili metalli onde, data la scarsità dell’oro, disporre di più liquidità.

Un problema, quello della liquidità, che iniziò ad essere risolto quando fu introdotta la moneta cartacea, come titolo di scambio coperto dalla riserva aurea. Stampare monete di carta è più facile che coniare moneta metallica. Il limite della riserva aurea consentiva, poi, di mantenere valore alla moneta rendendo il circolante cartaceo proporzionale al pregiato metallo esistente nei depositi.

Ben presto si comprese, però, che, consentendo una circolazione cartacea più che proporzionale rispetto all’oro depositato, era ancora più facile aumentare la liquidità a disposizione. Fu il primo passo per giungere a sganciare definitivamente la moneta cartacea dalla riserva aurea: cosa che avvenne nel 1971 quando – per sottrarsi alla pretesa francese di vedere commutata in oro l’ingente quantità di dollari emessi dalla Federal Reserve e depositati presso la Banca di Francia – Nixon dichiarò inconvertibile il dollaro nel metallo giallo.

Ad un certo punto di questa storia – più o meno temporalmente in coincidenza con l’introduzione della moneta cartacea – i banchieri privati, organizzati in grandi famiglie come i Baldi, i Fugger, i Medici (questi ultimi diventarono addirittura i signori della repubblica fiorentina nel ‘400), si impadronirono del potere sovrano di emettere moneta.

Da quel momento in poi, i re, gli imperatori, i Papi, le stesse repubbliche iniziarono a chiedere in prestito ai banchieri la moneta loro occorrente per finanziare le funzioni statuali. Quella stessa moneta che in precedenza era, invece, coniata o stampata direttamente dallo Stato.

Naturalmente i banchieri non prestavano per amor di patria ma pretendevano salatissimi interessi, per far fronte ai quali i sovrani non avevano altro che due strade: o ridurre le spese o aumentare le tasse. Due strade che sono ancora oggi le uniche che gli Stati hanno di fronte a sé, dato per assodato e comunemente accettato il dogma del divieto per i poteri pubblici di esercitare la sovranità monetaria ossia di emettere moneta. L’emissione di moneta, infatti, è oggi appannaggio esclusivo della Banche Centrali che non sono organi pubblici ma enti generalmente privati che esercitano, a ciò legittimati dalla legge, pubbliche funzioni.

La motivazione ufficiale di tale passaggio di poteri fu quella della incapacità dei pubblici poteri a gestire con oculatezza lo strumento monetario. Si imputò ai poteri pubblici, ai monarchi, di provocare inflazione, e quindi aumento dei prezzi, mediante l’emissione di moneta in eccesso al fine di finanziare una spesa pubblica – da quelle festose di corte a quelle di conquista militare – resa incontrollabile dall’arbitrio dei re.

Ma, evidentemente, dietro questo pretesto, non privo – sia chiaro – anche di ragioni effettive, si riuscì a far credere agli stessi monarchi che l’unico modo di governare saggiamente la moneta, nell’interesse della potenza del regno, fosse quello di affidarne la gestione a coloro che per mestiere esercitavano il credito, ossia ai banchieri. Ai quali pertanto i sovrani finirono per appaltare il potere di emettere moneta.

Con la conseguenza, però, che i re si ritrovarono a dover richiedere ai banchieri, garantendone la restituzione maggiorata di interessi, quel che, invece, essi avevano il diritto/dovere, come prerogativa della stessa sovranità (lo scettro, la toga, la spada e la moneta sono le prerogative tradizionali della sovranità) di emettere sul mercato, ossia la moneta.

Questa, in estrema sintesi, la nascita del fantomatico debito pubblico.

Con il passare dei secoli, il sistema si raffinò. Invece di prendere in prestito direttamente la moneta dai banchieri, gli Stati hanno iniziato a immettere sul mercato i titoli del debito pubblico o bond ossia obbligazioni con le quali lo Stato, per ottenere liquidità in prestito, si indebita verso gli acquirenti di detti titoli impegnandosi a pagare, ad una certa scadenza, il capitale nominale degli stessi gravato da interessi che variano a seconda della forza economica della nazione e/o del prezzo di mercato dei titoli medesimi (leggasi remunerazione da interesse che gli acquirenti/prestatori pretendono dallo Stato).

Naturalmente, i maggiori acquirenti dei titoli di Stato restarono, per ovvie ragioni di disponibilità del contante necessario, i banchieri privati. Compresa, inizialmente, la Banca Centrale di ciascuno Stato. Infatti, sin dalla fondazione della Banca d’Inghilterra, nel 1694, le Banche Centrali hanno, generalmente, avuto natura di società private alle quali, come si è detto, lo Stato concede il monopolio dell’emissione monetaria. Fino a poco tempo fa, prima dell’euro, la Banca Centrale nazionale, a copertura del circolante che essa periodicamente emetteva, chiedeva in contraccambio allo Stato l’emissione, in suo favore, di un quantitativo corrispondente di titoli del debito pubblico. In tal modo, l’emissione della moneta da parte della Banca Centrale costituiva uno dei momenti principali di indebitamento dello Stato. Il pagamento di questo debito era garantito mediante il gettito fiscale.

Insomma, lo Stato era costretto a spremere i suoi cittadini per assicurare soddisfazione agli strozzini legalizzati, anzi istituzionalizzati. Oppure a ridurre le prestazioni sociali, ossia le spese. In ogni caso a rimetterci erano sempre i cittadini.

L’esposizione dello Stato non avveniva certo solo verso la Banca Centrale. I titoli del debito pubblico erano piazzati anche o presso le altre banche private nazionali o presso il pubblico, ossia le imprese ed i cittadini che investivano i propri utili o i propri risparmi in detti titoli, per lucrarne un interesse. I più anziani ricordano, probabilmente, quando presso gli uffici postali e gli sportelli bancari era possibile acquistare BOT e CCT.

Un sistema basato sull’indebitamento che, tuttavia, fino a qualche decennio fa operava soltanto su scala nazionale. Ciascuno Stato era esposto soltanto verso la propria Banca Centrale, le proprie banche private, le proprie imprese ed i propri cittadini. In altri termini, tutta la faccenda rimaneva in casa. Ed era molto più controllabile, anche perché nessuno aveva interesse a mettere troppo in difficoltà lo Stato del quale era cittadino e, dal canto suo, lo Stato, pur potendolo, non esercitava il ripudio del proprio debito a danno dei suoi cittadini e delle sue imprese. Esisteva, in proposito, una sorta di patto nazionale tacito tra Stato, imprese e cittadini.

Ma a partire, con maggiore intensità, dall’ultimo ventennio, è intervenuta la globalizzazione che ha dato la stura alla quotazione in Borsa dei titoli del debito pubblico.

Un fantasma si aggira, in questi anni, per il mondo: quello dei fantomaticimercati finanziari. Chi sono costoro che hanno cotanto potere da poter mettere in ginocchio interi Stati e persino organizzazioni sovranazionali come la UE?

Per capirlo bisogna spiegare, brevemente, cosa è la Borsa.

Originariamente essa era nient’altro che il luogo – la piazza – nel quale gli operatori economici si incontravano, fisicamente, per trattare lo scambio di merci concrete.

Un po’ alla volta, spinti dalla necessità di assicurarsi contro il rischio di perdite dovute soprattutto al trasporto delle merci, in tempi nei quali una partita di beni poteva viaggiare tra mille pericoli per mesi prima di giungere a destinazione, i mercanti iniziarono a quotare più che le merci reali delle promesse di pagamento o di futura consegna. Questo genere di pattuizioni diede origine a quelli che oggi chiamiamo derivati ossia contratti il cui valore dipende da un altro contratto detto sottostante. I derivati, però, ben presto assunsero autonomia commerciale, nel senso che iniziarono ad essere venduti o acquistati separatamente dal contratto principale o, come si è detto,sottostante, acquisendo così un valore a sé stante. Benché in ultimo, connesso con l’originaria promessa di pagamento o di consegna dei beni, il valore di un derivato è sempre più lontano, mano a mano che derivato si aggiunge a derivato, dalla base della piramide. Base che tuttavia, continua reggere tutta l’impalcatura e che in caso di frana trascina tutto con sé. Come è accaduto negli anni scorsi in America con i mutui subprime.

Le cosiddette bolle speculative, che ogni tanto esplodono facendo ricadere devastanti effetti, in termine di perdita di liquidità, sull’economia reale, quella, appunto, sottostante, hanno avuto origine dal meccanismo dei derivati.

Questi ultimi, in altri termini, costituiscono una superfetazione, una sovrastruttura parassitaria, rispetto all’economia reale. Una sovrastruttura che però consente di guadagnare, facilmente ed immediatamente, notevoli quantità di denaro, in qualche modo prometeicamente creato ex nihilo, come pure di perdere altrettanto notevoli quantità di liquidità fittizia ma, contabilmente ossia finanziariamente, incidente.

Questo facilità di guadagno o di perdita è il rischio speculativo. Ma dal lato positivo, ossia del guadagno, esso costituisce un profitto da speculazione. Un profitto immorale perché non proviene dal lavoro. Oltretutto coloro che conosco i trucchi del mestiere sanno molto bene come influenzare i mercationde trarne, con opportuni allarmismi o fughe di notizie, il proprio vantaggio speculativo.

La giustificazione della Borsa sta nel fatto che essa consente di convogliare e raccogliere liquidità da mettere a disposizione delle imprese e di consentire così maggiore trasparenza ed efficienza al mercato, punendo comportamenti non competitivi. Ma la contropartita di tutto questo è la spersonalizzazione dell’impresa che da comunità di uomini che lavorano assieme per un comune ed onesto obiettivo, a beneficio dello sviluppo civile, diventa la società anonima le cui azioni sono, per l’appunto, quotate, ossia giocate, come in un casinò, in Borsa.

La società anonima è in realtà controllata dal cartello dei maggiori azionisti che possono imporsi, anche con una maggioranza relativa, sul cosiddetto parco buoi ovvero i piccoli investitori isolati. Per non parlare, poi, dell’infinita fantasia che scatena il gioco delle scatole cinesi ossia dell’intrecciarsi delle partecipazioni incrociate tre le stesse società anonime nel reciproco capitale azionario.

In realtà esistono molte imprese, anche di un certo spessore, che, non pur non essendo quotate in Borsa, operano saldamente sul mercato producendo beni di prima qualità, dando occupazione anche qualificata e trovando altrimenti le necessarie risorse finanziarie. Questo a dimostrazione che la Borsa non è, o perlomeno non è sempre, uno strumento necessario all’attività economica. 

In realtà, storicamente, la Borsa è servita soltanto a creare un mercatoderivato nel quale si giocano, come in una roulette, le azioni che non sono affatto quote di capitale ma titoli di credito che la società anonima, dotata di fittizia personalità giuridica, emette sul mercato per raccogliere liquidità. L’azione, infatti, non dà diritto ad una quota di comproprietà del capitale aziendale ma solo ad un dividendo dell’utile aziendale, ossia alla contropartita di un credito costituito dal capitale finanziario investito nella società e certificato dal titolo azionario. Proprio il fatto che tale dividendo è, per ogni azione, di non notevole entità spinge i possessori delle azioni a giocare il proprio pacchetto azionario in Borsa perché dalla vendita, al momento opportuno, delle azioni si ricavano profitti maggiori del risicato dividendo aziendale, cui le azioni medesime danno diritto.

Insomma, le azioni, sotto un certo profilo, sono per le aziende quel che i titoli di Stato sono per gli Stati ossia strumenti di smaterializzazione ovvero diastrazione, o separazione, dei valori finanziari dal valore reale, sottostante, dei beni concreti, siano essi merci, mezzi di produzioni o, nel caso degli Stati, funzioni e servizi pubblici.

Questo processo di astrazione borsistica non si è fermato alle sole azioni ma ha scatenato, a partire da esse che già di per sé sono un primo momento di separazione della proprietà dalla persona umana in favore di una astrattapersona giuridica, una inventiva sempre più morbosa nel creare prodotti finanziari di vario genere, estremamente pericolosi quanto seducenti nei rendimenti speculativi.

Ora, per tornare al debito pubblico, è accaduto che, con la globalizzazione, la quale è stata soprattutto finanziaria perché è molto più facile – oggi poi con il web ancora di più – far circolare da un capo all’altro del pianeta astratti titoli che non beni, aziende e servizi concreti, gli Stati hanno iniziato a quotare i propri titoli del debito pubblico nella Borsa mondiale.

I fantomatici mercati finanziari altro non sono che questa Borsa planetaria nella quale fondi di investimento, banche multinazionali, fondi sovrani, fondi pensione, grandi speculatori in proprio alla Soros, strozzini della peggior specie, e chi più ne ha più ne metta, competono per accaparrarsi le maggiori occasioni di profitto speculativo. Veri e propri angeli caduti che si aggirano per il mondo ruggenti come leoni per la perdizione, non solo economica, dell’umanità.

Dunque, non più un debito pubblico nostrano, come quello di un tempo, che vedeva lo Stato esposto nei confronti del proprio popolo, cittadini, imprese, banche nazionali, ma un debito pubblico internazionalizzato (1) che vede gli Stati alla mercé delle oscillazioni speculative provocate dai mercati finanziari. I quali, per acquistare i titoli del debito pubblico di uno Stato, pretendono interessi sempre più salati, pena l’impossibilità per quello Stato di finanziare il proprio debito, ossia di pagare pensioni, servizi sociali, scuola, sanità, energia, stipendi pubblici ma anche commesse private, e via dicendo. Pena, in altri termini, il fallimento dello Stato, il cosiddetto default.

In un certo senso, l’intero sistema si basa sul sostenersi reciproco ma precario dei diversi debiti pubblici statali (vedasi il reciproco sostegno tra USA e Cina) e sul fatto che, in una economia mondiale basata sul debito, a nessuno, neanche alle banche ed agli speculatori, conviene il fallimento di questo o quello Stato. Da qui, come nel caso della Grecia, il correre internazionale ai ripari perspegnere lincendio o fermare il contagio: terminologia molto più evocativa di tante spiegazioni tecniche.

Però l’incendio o il contagio, data la fallacia umana, possono sempre sfuggire dai controlli per quanto raffinati e sostenuti essi possano essere. Con la conseguenza, in quel caso di un default mondiale che, forse, servirebbe da lezione per questa umanità in preda alla febbre dell’avidità.

L’ammontare dell’interesse preteso dai mercati finanziari è determinato da una serie combinata di fattori che vanno dal mero gioco della domanda e dell’offerta alle operazioni speculative di vario genere (quotazioni delle agenzie di rating, allarmismi, puntate al rialzo o al ribasso, vendite allo scoperto ed altri strumenti tecnici specifici). Ma quel che più conta, nel determinare l’alto o il basso rendimento di un titolo di Stato ossia il suo prezzo in termini di alti o bassi interessi, è la capacità, vera o supposta, di quello Stato di tenere a freno la spesa pubblica o far crescere l’economia per aumentare le entrate a compensazione, totale o parziale, della spesa.

A questo scopo ci sono due strade: la prima, il contenimento della spesa pubblica, quella attualmente praticata da Tremonti, richiede sacrifici ai cittadini mediante manovre di bilancio lacrime e sangue perché fondate quasi esclusivamente su tagli alla spesa, non solo quella improduttiva ma anche quella sociale.

La seconda via consiste nella crescita economica per aumentare le entrate, mediante politiche keynesiane intese a incentivare l’economia.

Entrambe queste vie sono, in realtà, inefficaci nell’accontentare l’insaziabilità vorace dei mercati. Di contro – nell’ambito della cornice usurocratica che abbiamo tratteggiato – si rivelano entrambe rivolte a danno dei popoli.

Infatti, se i tagli alla spesa, quando si tratta di spesa sociale, sono di per sé evidentemente antipopolari, anche l’incentivo alla crescita economica si risolve, in realtà, in un invito ad ammazzarsi di lavoro affinché i proventi del proprio lavoro non restino in casa ma vadano a sostenere il debito pubblico contratto nei confronti degli strozzini planetari.

In questi giorni il professor Vaciago, dell’Università Cattolica (sic!), intervistato sul notiziario web Tiscali, criticava la manovra di Tremonti perché trattasi – ed è assolutamente vero – di una manovra deflazionista e recessiva, mentre a suo dire bisognerebbe, con la manovra di bilancio, dare sostegno all’economia affinché «la crescita vada a sostegno del debito pubblico». In altri termini, secondo Vaciago, dobbiamo lavorare di più per consentire di pagare gli interessi ai «mercati finanziari». Dobbiamo farci belli – come polli pasciuti da spennare – ai loro occhi e così continuare ad avere fiducia e credito ossia a dipendere dai mercati.

Le misure di austerità – senza dubbio – impediscono, per il loro effetto deflattivo, la crescita economica. La deflazione gela l’economia nella rarefazione della liquidità come l’inflazione la droga di moneta ridotta a carta straccia. Si tratta di due mali, speculari, come la siccità e l’inondazione, il deserto e lo tsunami.

Se è vero che un po’ di inflazione controllata corrobora l’economia, nonostante faccia aumentare il tasso di interesse sul debito pubblico (che se fosse ancora solo nazionale non ne risentirebbe eccessivamente) è altrettanto vero che anche la crescita pensata per sostenere il debito è, in realtà, una cura solo in apparenza popolare. Una crescita finalizzata a sostenere il profitto degli speculatori è la classica carota, appesa con la fune al bastone, posta dal cavaliere di fronte all’asino per farlo trottare di più.

Emblematico, in tal senso, il ragionamento dell’economista francese Jean Paul Fitoussi, intervistato da Avvenire (2).

«I mercati – ha affermato Fitoussi – non speculano attualmente sui fondamentali dellItalia e degli altri Paesi europei, ma sullincapacità dellEuropa di elaborare una politica comune di crescita economica. E su questo punto non vedo per il momento progressi, temo anche a causa di nuovi rigurgiti nazionalistici (…). Credo che la paralisi decisionale europea stia alimentando gli attacchi speculativi. Il caso greco non è stato finora risolto, nonostante fosse relativamente semplice da risolvere. Anzi, appare evidente che gli Stati delleuro sono in disaccordo. Nessun piano credibile è stato proposto e ciò corrisponde quasi a un invito ai mercati a speculare. Si aggiunga a ciò linquietudine dei detentori del debito europeo. Si produce così un effetto a catena che fa lievitare gli interessi sui prestiti. In questo scenario, tutti i Paesi finiranno per essere attaccati. Neppure la Germania può considerarsi al riparo. Tutti i Paesi hanno dei punti deboli, legati o al debito proprio o alle parti di debito pubblico svalutato detenuto dalle banche nazionali. Il problema centrale, cioè lincapacità di decisione europea, è più politico che economico. LItalia ha buoni fondamentali, certo, ma non sta qui il problema. (…) le misure di austerità sono attualmente inutili e… riducono il potenziale di crescita della zona euro. I mercati non analizzano in primo luogo la credibilità dei piani di austerità, ma il fatto che esiste unincapacità decisionale in Europa e che dunque nessun Paese è al riparo. Dopo la Grecia,lIrlanda, la Spagna e il Portogallo, arriva il turno italiano. Presto, forse,toccherà alla Francia o alla Germania (…). Il contagio è ormai cominciato da tempo. Laspetto paradossale è che la zona euro ha dei conti pubblici più sani degli Stati Uniti e del Giappone. Il debito di questultimo è quasi il triplo di quello europeo. Eppure è la zona euro a essere attaccata. Ciò mostra bene che non si tratta di un problema di fondamentali macroeconomici (…). Più che un piano di salvataggio, occorrerebbe sostenere la solidarietà finanziaria europea. I mercati punterebbero presto il mirino altrove. Concretamente, lEuropa potrebbe emettere degli eurobond e rifinanziare in tal modo gli Stati. Nulla lo impedisce (…). Non dimentichiamo che la Spagna,ad esempio, aveva conti in positivo prima della crisi. È questultima ad aver provocato il debito. Oggi, è molto curioso che i governi che hanno salvato i mercati finanziari vengano rimproverati da questi ultimi di averli salvati. Di fatto, siamo fuori dalla razionalità. Non si tratta di un problema di lassismo. Se lEuropa simpantana in una politica dausterità, potrà dimenticare la crescita. E senza crescita, per definizione, aumenterà il rapporto fra il debito e il PIL. Lausterità condurrà al risultato opposto rispetto a quello voluto. (…) la realtà attuale è che dopo la crisi dovuta ai mercati finanziari, ci ritroviamo nella situazione paradossale in cui gli Stati sono posti sotto la tutela dei mercati. Occorre invece costruire prima la governance europea. Se ci fosse, una buona parte della crisi mondiale verrebbe risolta. UnEuropa in piena stagnazione, invece, danneggerebbe presto anche gli Stati Uniti, il Giappone e tutta larea OCSE, per via della riduzione delle importazioni».

Un’analisi, quella di Fitoussi, certamente interessante. Fa molto riflettere quella terminologia per la quale, a certe condizioni, «i mercati punterebbero altrove il mirino». Dipinge efficacemente l’immagine degli Stati del tutto indifesi sotto il tiro della fucileria finanziaria. E per evitare di essere colpiti, l’unica è fare in modo che i mercati dirottino altrove, ossia verso altri malcapitati, il proprio micidiale mirino.

Interessante anche quell’accenno all’ingratitudine dei «mercati» salvati due anni fa, in piena crisi, dai governi, con massicce iniezioni di risorse pubbliche, che ora «rimproverano» gli Stati di averli salvati e li pongono sotto tutela. Del resto, cosa si aspettavano i nostri imbelli politici: l’amore eterno da parte di una puttana? Chi sposa una donna dai facili costumi deve essere pronto a portare le corna.

«Siamo fuori dalla razionalità» dice Fitoussi. Una sentenza di morte per la pretesa fondamentale dell’economia liberale che è quella di essere il massimo modello di razionalità che mai l’umanità abbia partorito nella sua storia.

Ma, poi, Fitoussi, in orrore ai «rigurgiti nazionalistici», propone un rafforzamento politico dell’Europa. Il che non sarebbe neanche una cattiva idea, nella prospettiva di un «grande spazio europeo» politicamente sovrano e concorrente con gli Stati Uniti, senza più assoggettamento agli interessi strategici e geopolitici americani. Ma gli eurobond, sostenuti da un governo politico europeo, non risolverebbero il problema essenziale del debito pubblico, del quale abbiamo tratteggiato la genesi e la storia. Essi servirebbero soltanto a creare un debito pubblico europeo riproducendo su più vasta scala, e fino al prossimo attacco speculativo, la stessa situazione nella quale si dibattono oggi i singoli Stati nazionali, incapaci di coordinarsi in termini sovranazionali perché ognuno ha i suoi interessi e problemi divergenti da quelli degli altri.

L’europeismo di Fitoussi certamente consentirebbe una governance più forte per affrontare i mercati ma a condizione di accelerare il processo di omogeneizzazione economica globale e senza risolvere la dipendenza degli Stati dai mercati. Perché, in realtà, è questa dipendenza il vero problema.

Non c’è nessuno, oggi, dalle cattedre universitarie, dai media, dai seggi di comando politico, dotato del coraggio necessario per dire, chiaramente, che, forse, nell’intero sistema di strozzinaggio mondiale c’è qualcosa di assolutamente immorale e mortifero.

Per il piccolo strozzino di quartiere scoperto a praticare prestiti usurai le porte del carcere si aprono immediatamente. Non si capisce, invece, che differenza ci sia o si pretenda che ci sia, dal punto di vista etico, quando lo strozzinaggio è praticato in Borsa e sui titoli del debito pubblico a danno di interi popoli, addirittura, se si vuole, dell’umanità intera.

Ma, alla fine, non saranno gli strozzini planetari a dire l’ultima parola perché sarà l’Oste a presentare il conto. E per essi sarà salatissimo.

Luigi Copertino





1) Oggi il 52% del debito italiano è collocato presso non residenti ed un buon 30% dei 1.580 miliardi di BOT, BTP e CCT è nelle mani di banche europee che devono affrontare l’urto di molteplici deprezzamenti. Alle banche si aggiungono i fondi sovrani di Paesi emergenti come la Cina, che da sola sembra detenere non meno del 13-14% del debito pubblico italiano, nonché i vari fondi stranieri in possesso del 10% dei BTP. Così ha spiegato l’attuale situazione finanziaria della nostra nazione in un suo articolo (apparso su Il Centro del 13 luglio 2011) Alessandro Volpi, dell’Università di Pisa, ricordando che: «Il destino italiano è affidato a questa platea di soggetti, banche e fondi in primis; sono loro che dovranno dare il voto non solo alla manovra ma allintero sistema Paese, decidendo se e a che prezzo ricomprare il debito italiano, calcolando i costi, a loro carico, di un possibile fallimento del nostro Paese. Sono banche e fondi a decidere perché il resto del mercato, dai risparmiatori italiani fino agli speculatori, tenderanno a muoversi in maniera conseguente alle mosse di tali soggetti…». Come diceva il compianto Giano Accame, la finanza ha espropriato la democrazia perché, mentre gli elettori votano una volta ogni cinque anni, i mercati finanziari votano ogni giorno. Mussolini parlava, a proposito della democrazia, di ludi cartacei. Forse ai suoi tempi la frase era certamente esagerata ma oggi non più, in quanto i mercati finanziari possono vanificare, rendendola appunto una attività ludica, l’espressione democratica della volontà popolare. A dimostrazione che, come aveva intuito Ezra Pound, dietro due secoli di nobile predicazione democratica, in effetti hanno agito, ed agiscono, usurai e speculatori. È infatti emblematico che il sopra citato Volpi chiuda il suo articolo invocando, come Napolitano, la «coesione nazionale» ed un «governo demergenza legato a doppio filo con la Banca dItalia e in grado di trovare ascolto in Europa». Il che suona come un de profundis per il governo del Bunga Bunga, il quale, qualunque cosa se ne pensi (e lo scrivente non ne pensa affatto bene) e benché con una legge elettorale da repubblica delle banane, comunque fu a suo tempo votato dal corpo elettorale.
2) Confronta Fitoussi: Tutti i Paesi europei finiranno sotto tiro, intervista di Daniele Zappalà, in Avvenire del 13 luglio 2011

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