Le proposte progettuali di Arcipelago nascono dall’osservazione dei processi di cambiamento e dalle loro motivazioni.
L’artigianato
Il processo di smantellamento dell’economia reale nel nostro Paese inizia con la marginalizzazione prima, la distruzione poi, dell’artigianato primario. Burocratizzazione ossessiva e sistemica; morte del vero apprendistato “di bottega”; declassamento, nell’immaginario collettivo, dei mestieri attraverso la mono-cultura – mito – della laurea, unico simbolo di stato riconosciuto e, quindi, ricercato e voluto dalle famiglie.
Vediamone il riscontro.
All’inizio degli anni ’70, l’Italia era uno dei leader mondiali nel numero dei brevetti.
Oggi siamo oltre il 40° posto.
Il processo di smantellamento dell’economia reale nel nostro Paese inizia con la marginalizzazione prima, la distruzione poi, dell’artigianato primario. Burocratizzazione ossessiva e sistemica; morte del vero apprendistato “di bottega”; declassamento, nell’immaginario collettivo, dei mestieri attraverso la mono-cultura – mito – della laurea, unico simbolo di stato riconosciuto e, quindi, ricercato e voluto dalle famiglie.
Vediamone il riscontro.
All’inizio degli anni ’70, l’Italia era uno dei leader mondiali nel numero dei brevetti.
Oggi siamo oltre il 40° posto.
Ogni processo seriale, qualunque sviluppo tecnologico che possa diventare prodotto e che possa, quindi, essere industrializzato, passa da mani di uomini, di artigiani che quella materia e quel prodotto conoscono, manipolano, creano: la nascita del prototipo.
Uccidi il prototipo, distruggi la filiera.
L’industria
Il processo prosegue con l’attacco all’imprenditoria pura: alla capacità di trasformare quel prototipo in prodotto per tutti, al vivere l’azienda come soggetto primario in cui l’obiettivo era il fare e non il denaro, che era da sempre visto ed utilizzato per meglio produrre.
Ebbene, anche con tutte le conflittualità – spesso generate “ad arte” come strumento di divisione sociale e deviazione dai problemi reali – gli errori, o vere e proprie storture, l’imprenditoria italiana è stata un modello imitato in tutto il mondo. La famosa “qualità totale” dell’industria giapponese degli anni ’80 fu il frutto di anni di studio della migliore imprenditoria italiana degli anni ’60 e ’70 : fu imitata nella qualità, ma anche nelle proporzioni ( aziende a misura d’uomo come per esempio ricordiamo Adriano Olivetti ).
Gli anni ’80, che iniziano con la deregulation reganiana (1981), cioè l’atto ufficiale della separazione della finanza speculativa dall’economia concreta, vedono nel nostro Paese l’inizio della fine dell’imprenditoria: assorbimenti, accorpamenti, finanziarizzazione, accettazione passiva delle tecniche ed obiettivi del marketing anglo-sassone (il cui slogan primario era “l’azienda di prodotto vende ciò che produce, l’azienda di marketing produce ciò che si vende”): in tempi relativamente brevi i rapporti di investimento si alterano prima, si rovesciano poi: da un 70% reinvestito nel fare ed un 30% nel marketing, si giunge ad un 30% nell’industriale, 70% nel marketing.
Manager, più o meno rampanti, prendono il posto degli imprenditori, spesso umiliati nel ruolo “vetrina” di Presidenti senza deleghe.
Manager esperti di finanza, non del fare; di numeri e modelli matematici non di uomini e prodotti.
Gli investimenti si spostano ulteriormente: dal marketing passano alla finanza pura, alla borsa; i debiti divengono il soggetto primario delle attenzioni aziendali: inizialmente si deve costantemente aumentare il fatturato per non farsi raggiungere dal debito; oggi lo si deve fare per non farsi distaccare troppo da un indebitamento che ha preso il largo, irraggiungibile da qualunque produzione e commercializzazione.
La sovrapproduzione diviene norma, l’incitamento al consumo indiscriminato è un obbligo.
L’industria è oggi al capolinea, inevitabilmente.
Tradendo la qualità, unica garante di non imitabilità e quindi di mercati certi, la quantità voluta si è scontrata con la capacità di massificazione di Stati ed intere regioni (vd. il Sud-Est asiatico) i cui costi produttivi sono e resteranno per molto, inavvicinabili.
Il processo prosegue con l’attacco all’imprenditoria pura: alla capacità di trasformare quel prototipo in prodotto per tutti, al vivere l’azienda come soggetto primario in cui l’obiettivo era il fare e non il denaro, che era da sempre visto ed utilizzato per meglio produrre.
Ebbene, anche con tutte le conflittualità – spesso generate “ad arte” come strumento di divisione sociale e deviazione dai problemi reali – gli errori, o vere e proprie storture, l’imprenditoria italiana è stata un modello imitato in tutto il mondo. La famosa “qualità totale” dell’industria giapponese degli anni ’80 fu il frutto di anni di studio della migliore imprenditoria italiana degli anni ’60 e ’70 : fu imitata nella qualità, ma anche nelle proporzioni ( aziende a misura d’uomo come per esempio ricordiamo Adriano Olivetti ).
Gli anni ’80, che iniziano con la deregulation reganiana (1981), cioè l’atto ufficiale della separazione della finanza speculativa dall’economia concreta, vedono nel nostro Paese l’inizio della fine dell’imprenditoria: assorbimenti, accorpamenti, finanziarizzazione, accettazione passiva delle tecniche ed obiettivi del marketing anglo-sassone (il cui slogan primario era “l’azienda di prodotto vende ciò che produce, l’azienda di marketing produce ciò che si vende”): in tempi relativamente brevi i rapporti di investimento si alterano prima, si rovesciano poi: da un 70% reinvestito nel fare ed un 30% nel marketing, si giunge ad un 30% nell’industriale, 70% nel marketing.
Manager, più o meno rampanti, prendono il posto degli imprenditori, spesso umiliati nel ruolo “vetrina” di Presidenti senza deleghe.
Manager esperti di finanza, non del fare; di numeri e modelli matematici non di uomini e prodotti.
Gli investimenti si spostano ulteriormente: dal marketing passano alla finanza pura, alla borsa; i debiti divengono il soggetto primario delle attenzioni aziendali: inizialmente si deve costantemente aumentare il fatturato per non farsi raggiungere dal debito; oggi lo si deve fare per non farsi distaccare troppo da un indebitamento che ha preso il largo, irraggiungibile da qualunque produzione e commercializzazione.
La sovrapproduzione diviene norma, l’incitamento al consumo indiscriminato è un obbligo.
L’industria è oggi al capolinea, inevitabilmente.
Tradendo la qualità, unica garante di non imitabilità e quindi di mercati certi, la quantità voluta si è scontrata con la capacità di massificazione di Stati ed intere regioni (vd. il Sud-Est asiatico) i cui costi produttivi sono e resteranno per molto, inavvicinabili.
L’agro-alimentare
Restava il comparto agro-alimentare, gioiello di un Paese capace di creare tipicità come nessun altro Paese al mondo (noi abbiamo 100 formaggi tipici in più della Francia!); di trasformare produzioni umili in gioielli gastronomici; di raggiungere livelli qualitativi eccelsi in una quantità esorbitante di territori.
Qui il killer prende il nome di GDO, Grande Distribuzione Organizzata, con tutto il suo apparato comunicativo in grado di suggestionare e determinare scelte, di orientare una popolazione, invero disorientata e disinformata.
Alla distribuzione si utilizzano gli stessi argomenti dell’industriale: “è indispensabile ingrandirsi per concorrere”; slogan dei mediocri, di chi non avendo qualità può solo sopravvivere con quantità e prezzi bassi.
L’indirizzo dei fondi europei fa il resto: determina la vita e la morte di interi comparti; sconvolge tradizioni locali al punto di modificare paesaggi pur di ottenere finanziamenti.
Muoiono centinaia di prodotti, di settori, di filiere; muore il mercato locale in nome della globalizzazione dei mercati; muore il buon senso: un semplice sciopero degli autotrasportatori genera il vuoto negli scaffali di prodotti in realtà accessibili a pochi chilometri di distanza, ma non rientranti nel flusso di merci della GDO.
Dipendenza assoluta da territori – ma soprattutto da marchi praticamente monopolisti – lontanissimi, per produzioni da sempre esistenti sui nostri territori.
Prezzi e divisione degli utili, che sfuggono totalmente alle capacità di produttori e piccoli commercianti, che giungono a determinare la graduale ma costante chiusura di produttori e commercianti: quelli stessi suggestionati e convinti anni prima a “seguire l’onda” delle grandi produzioni assistite e dei “marchi prestigiosi”.
Restava il comparto agro-alimentare, gioiello di un Paese capace di creare tipicità come nessun altro Paese al mondo (noi abbiamo 100 formaggi tipici in più della Francia!); di trasformare produzioni umili in gioielli gastronomici; di raggiungere livelli qualitativi eccelsi in una quantità esorbitante di territori.
Qui il killer prende il nome di GDO, Grande Distribuzione Organizzata, con tutto il suo apparato comunicativo in grado di suggestionare e determinare scelte, di orientare una popolazione, invero disorientata e disinformata.
Alla distribuzione si utilizzano gli stessi argomenti dell’industriale: “è indispensabile ingrandirsi per concorrere”; slogan dei mediocri, di chi non avendo qualità può solo sopravvivere con quantità e prezzi bassi.
L’indirizzo dei fondi europei fa il resto: determina la vita e la morte di interi comparti; sconvolge tradizioni locali al punto di modificare paesaggi pur di ottenere finanziamenti.
Muoiono centinaia di prodotti, di settori, di filiere; muore il mercato locale in nome della globalizzazione dei mercati; muore il buon senso: un semplice sciopero degli autotrasportatori genera il vuoto negli scaffali di prodotti in realtà accessibili a pochi chilometri di distanza, ma non rientranti nel flusso di merci della GDO.
Dipendenza assoluta da territori – ma soprattutto da marchi praticamente monopolisti – lontanissimi, per produzioni da sempre esistenti sui nostri territori.
Prezzi e divisione degli utili, che sfuggono totalmente alle capacità di produttori e piccoli commercianti, che giungono a determinare la graduale ma costante chiusura di produttori e commercianti: quelli stessi suggestionati e convinti anni prima a “seguire l’onda” delle grandi produzioni assistite e dei “marchi prestigiosi”.
Dall’osservazione, dallo studio e analisi di quanto abbiamo qui sintetizzato nasce l’approccio progettuale di ArcipelagoScec.
Nasce dall’apporto di Sostenitori, attivi nell’Associazione, che hanno messo a disposizione le loro conoscenze ed esperienze professionali in vari ambiti e settori.
Da qui le nostre proposte rivolte alle Amministrazioni Locali, agli artigiani, imprenditori, produttori, commercianti.
Proposte che continuamente, con il crescere dell’Associazione e l’apporto di professionalità nuove, si arricchiscono.
Nasce dall’apporto di Sostenitori, attivi nell’Associazione, che hanno messo a disposizione le loro conoscenze ed esperienze professionali in vari ambiti e settori.
Da qui le nostre proposte rivolte alle Amministrazioni Locali, agli artigiani, imprenditori, produttori, commercianti.
Proposte che continuamente, con il crescere dell’Associazione e l’apporto di professionalità nuove, si arricchiscono.
Arricchimenti che ci consentono, oggi, di sottoporre progetti concreti come:
Nessun commento:
Posta un commento